La ripresa delle attività dopo un tempo sospeso e complesso ci pone di fronte a una serie di difficoltà che in parte non avevamo preventivato. Ma si tratta di problemi nati ora? O possiamo pensare che siano sempre stati dentro di noi, ma che li abbiamo agiti attraverso azioni concrete, prima e durante il lockdown con modalità diverse, evitando di trasformarli in pensieri?

Se ci soffermiamo su come molti hanno reagito alla Fase 1 ci accorgiamo che il “fare” è stato compagno delle nostre giornate. Non un fare generico, ma un agire secondo necessità inconsce di ciascuno. Il pulire la casa, il cucinare, l’allenarsi.  A volte anche il distrarsi guardando ore di serie tv. Tutte azioni che ci hanno consentito di non entrare in contatto con il dolore e il vuoto. 

Ma che significato hanno queste azioni? È un nodo fondamentale che vale la pena provare a sciogliere, proprio in questo momento in cui, con la riapertura, siamo di nuovo nella condizione di muoverci e concretizzare i nostri vissuti profondi. Questo è sicuramente un bene, per certi versi, perché è attraverso la vita vissuta che possiamo realizzare i nostri desideri più profondi. Il lavoro e le relazioni sono alcuni degli elementi che ci consentono di esprimerci e realizzarci. 

Tuttavia ci sono molte attività che portiamo avanti perché non siamo in grado di trasformare l’azione in simbolo.

La mancanza di relazioni dell’isolamento non ha giovato alla nostra capacità di simbolizzare, dal momento che primariamente nell’incontro con un altro che pensa possiamo tradurre il pensiero in simbolo. Ciò è vero soprattutto per chi ha dovuto o preferito interrompere un rapporto terapeutico. La relazione terapeutica ha infatti caratteristiche peculiari, fondanti della pratica clinica nella quale la possibilità di incontro tra menti pensanti è il presupposto per uscire dall’impasse del sintomo attraverso il lavoro di significazione. È comprensibile che in questi mesi ci sia stato bisogno di sospendere poiché pensare a volte è difficile e può venire spontaneo rifugiarsi in un’attività di “gestione dell’emergenza”, un mettersi in pausa, un dedicarsi ad altro. 

Tuttavia nel lungo periodo questo può risultare controproducente, perché fintanto che non si è sviluppata una capacità autonoma di autoanalisi, il rischio che si corre è di regredire a stadi precedenti di disagio, in uno stallo che diventa normalità, ma in cui si perde l’occasione di progredire in una strada realmente trasformativa.

Rischio che in fondo si corre anche quando si fa ricorso a strategie per affrontare malessere che non mirano a dare senso, ma piuttosto a mettere a tacere e a “gestire”, quasi fossimo delle macchine da far funzionare e in modo prestante, invece che individui complessi che hanno tutto il diritto di gioire, soffrire, avere dei conflitti e delle aree di ambivalenza e paradosso. 

Diventa dunque normale che, in assenza di relazioni, entri in gioco un fare che non solo ci tenga occupati, ma che abbia la funzione di reificare ciò che non può essere rappresentato.

Se pensiamo ad alcune delle attività che sono andate per la maggiore in questi mesi, ne troviamo alcune che sono miniere di significato.

Pensiamo ad esempio al cibo. Fin dall’inizio, il procacciarsi tonnellate di cibo svuotando gli scaffali dei supermercati, non può avere avuto come unica motivazione un’esigenza reale di sopravvivere. Premesso che non saremmo morti di fame, quello che dobbiamo chiederci è: che cosa ci manca se non abbiamo cibo a sufficienza e non abbiamo il cibo che desideriamo? Che cosa rappresenta il nutrirsi? Ovviamente le declinazioni di questo aspetto sono del tutto soggettive e stanno in quella dimensione in cui il cibo è il primo simbolo di relazione tra la mamma e il suo bambino, laddove nutrire non è primariamente una questione di “tenere in vita”, quanto di comunicare e prendersi cura. Abbiamo avuto bisogno di sapere che tutto ciò non ci sarebbe mancato, che avremmo avuto il conforto, prima ancora del problema di sopravvivere. La dimensione del simbolo legata al cibo è immensa e così variamente sfaccettata da rendere utile la domanda più che la risposta. Che cosa significa cucinare qualcosa di buono per gli altri? Che cosa significa farlo per sé? Che cosa invece vuol dire mangiare in modo compulsivo o non badare affatto a ciò di ci si nutre? 

Queste stesse riflessioni possono essere trasferite a molte forme di consumo, dall’alcol allo shopping. Insomma, a quali bisogni rispondono le nostre azioni?

È chiaro che spesso simbolizzare è un’impresa complessa. Non siamo abituati ad ascoltare per esempio i nostri sogni, se non nella misura in cui “sognare questo vuol dire quello”. Quanto ci perdiamo di noi stessi in questo modo! 

Sarebbe bello approfittare della pausa forzata, del rallentamento, per conoscerci un po’ meglio ed eventualmente sciogliere grumi di non senso che non ci consentono di vivere pienamente, ma solo di andare avanti e lasciarci vivere dalle circostanze.

Forse proprio grazie all’arresto dell’azione molte persone in questo periodo hanno messo in discussione per esempio il loro lavoro, domandandosi se sia davvero quello che vogliono fare. Non è una domanda superficiale, non è semplicemente il farsi prendere dalla pigrizia. Può anzi essere un “sognare ad occhi aperti”, nella sua accezione più positiva. Dove sono andati a finire i nostri progetti, i nostri appagamenti profondi? È indiscutibile che le esigenze della vita portano a fare determinate scelte, in modo molte volte funzionale alla realizzazione di desideri altrettanto forti e importanti: la famiglia è uno di questi, ma anche per esempio la necessità di emanciparsi. Eppure se il sogno ad occhi aperti ci porta ad altri simboli, perché non cogliere l’occasione almeno di interrogarli e interrogarci? 

Se vogliamo davvero che la crisi sia un’opportunità di cambiamento, proviamo a pensare. Proviamo a interrompere il meccanismo della coazione a ripetere, anche con l’aiuto di qualcuno, se necessario. Non facciamoci trascinare nell’ingranaggio dai ritmi imposti dalla vita, ma soprattutto dai riti che ci imponiamo noi stessi. Diamoci la possibilità di stupirci e ripartire con un passo diverso.