Non andrà tutto bene (se non ce ne occupiamo) di Serena Vallana
No, non andrà tutto bene, se non ce ne occupiamo.
Stupisce che lo dica una psicologa che dovrebbe rassicurare, fare stare meglio?
Ebbene, il ruolo dello psicologo è quello di cercare di conoscere, capire e accogliere il dolore, non quello di sostenere la negazione della realtà.
Ed è meglio che lo mettiamo in conto da subito che i danni saranno ingenti. Non per tutti allo stesso modo o con la stessa intensità, ma la situazione di trauma collettivo ed epocale che stiamo vivendo lascerà sul campo uno sconvolgimento psicologico e sociale di cui non è saggio non occuparsi. Ora, per non cadere dalle nuvole poi, senza avere avuto cura di preparare un paracadute.
Perché se in questo momento tutta l’attenzione è volta ad affrontare l’emergenza sanitaria ed economica, troppo poco spazio viene dato alle conseguenze psicosociali che questi fattori, oltre all’isolamento, provocheranno.
Molti dicono che tutto questo ci farà diventare persone migliori: capiremo che cosa è importante e a che cosa possiamo rinunciare, rivedremo i nostri consumi, coltiveremo le relazioni che contano. Inquineremo di meno perché abbiamo visto gli effetti del blocco delle attività sulla qualità dell’aria che respiriamo. Quando ricominceremo a lavorare saremo cauti nel mantenere lo spazio che ci serve per noi, non ci faremo più travolgere da tanti impegni inutili.
Saremo più solidali, ci prodigheremo per aiutare il nostro prossimo. Non saremo più tentati di individuare un “nemico” facile, l’immigrato, ad esempio, ora che sappiamo cosa significa avere porte chiuse in faccia. Ma a ben pensare, non stiamo già facendo lo stesso tipo di ragionamento ipersemplificato individuando il runner come untore?
Forse saremo migliori o forse no, ma questo cambiamento non è né scontato, né lineare.
Si accompagna all’idea che ne usciremo migliori quella per cui in qualche modo è colpa nostra. C’è un pensiero diffuso per cui tutto quello che sta accadendo ce lo siamo meritato. Dovevamo fermarci, non vivere in questo modo isterico e consumistico. Era inevitabile una punizione divina o al limite da parte della Natura che ci si ritorce contro, per i non credenti. Poco cambia. Io penso invece che della colpa, di quella colpa che la nostra cultura si impegna tanto a svalutare, abbiamo bisogno per difenderci: nel dire che siamo noi ad aver sbagliato, sottintendiamo che avremmo potuto evitarlo, dipendeva da noi. È l’unica strada che abbiamo per mantenere un’illusione di controllo.
Durante il lockdown le reazioni delle persone sono molto diverse, in base alle risorse di ciascuno. Risorse di ogni tipo, da quelle economiche a quelle psichiche. Sicuramente vivere la quarantena confinati in una grande casa in campagna è molto diverso dall’essere costretti in un appartamento magari sovraffollato e anche se potrebbe sembrare banale dirlo spesso non riusciamo a metterci nei panni degli altri, anche a due passi da noi.
Certo è che la salute mentale di una gran parte di persone è messa a dura prova. Si tratta senz’altro delle persone più fragili, per cui è stato rilevato un incremento di TSO e di ideazione suicidaria in alcune fasce di popolazione. Ma anche chi prima non mostrava segni evidenti di disagio ora può essere in difficoltà. Ansia, paura, depressione. Angoscia di fronte alle notizie che ci bombardano in televisione. Sintomi ossessivo-compulsivi riguardo all’igiene per evitare la contaminazione, che trascendono i comportamenti precauzionali utili per trasformarsi in riti magici senza i quali non si riesce a vivere.
Eppure c’è anche chi sta bene. Anzi, c’è addirittura chi sta meglio di prima. Ci sono, per esempio, tutti quelli che hanno realizzato il desiderio profondo di sottrarsi a una quotidianità fonte di pressione continua, fatta di richieste insoddisfacibili, per cui momentaneamente ci si può occupare di se stessi e non conformarsi alle aspettative di altri.
E poi ci sono tutti quelli che se la cavano. Tonnellate di pane sfornato, ore di ginnastica, abbuffate di serie tv. Ma anche smart working, aperitivi virtuali e mezze giornate per fare la spesa. Bambini da distrarre, panni da stendere. Si passa il tempo. Ma sempre meno si sentono canti dai balconi. Il vicino è diventato una presenza più o meno sopportabile. E sempre meno si fa ironia, la verve creativa dei primi tempi inizia a esaurirsi.
È da notare che agli psicologi arrivano molte meno richieste di sostegno di quelle che ci si potrebbe aspettare. Ma questo, a bene vedere, non stupisce.
Durante la crisi tutte le nostre energie psichiche sono impegnate nell’affrontarla. Quasi mai si sente il dolore più forte nel momento del trauma.
Accade per esempio nel momento della malattia, quando la paura viene messa a tacere per attivare le risorse che permettono di curarsi, nel migliore dei casi, di negare la realtà e quindi non potervi far fronte, nel peggiore.
Accade con il lutto, in cui in una prima fase prevalgono lo smarrimento e l’azione, il “mettere tutto a posto”, per poi, solo in una seconda fase, poter contattare il dolore della perdita, il vuoto della mancanza.
È solo quando siamo al sicuro che possiamo soffrire.
E nella malattia e nel lutto in questo momento siamo immersi, che ci riguardi da vicino o che assuma i contorni del rischio. Malattie e lutti del tutto particolari, perché vissuti in isolamento, senza la possibilità del conforto delle persone care, fattore devastante sia per i malati sia per quelli che attendono. Da malati abbiamo bisogno di essere rassicurati oltre che curati. E parenti e amici sono privati di qualsiasi possibilità di essere di aiuto, anche solo per confortare sé stessi.
E il lutto vissuto in solitudine, spogliato di quell’elemento indispensabile per dargli senso e forma che è il rito funebre, quali conseguenze può avere a livello psicologico?
Ma anche quando tutto questo sarà finito, quando passeremo alla fase 2, le nostre vite sconvolte avranno un carico che nessun decreto potrà alleggerire.
Pensiamo ai conflitti famigliari, esacerbati dalla convivenza senza respiro. Ai figli costretti a rinunciare alla socialità, che siano bambini o adolescenti. Bambini ai quali dobbiamo trovare le parole per spiegare cosa accade, per dir loro che mamma e papà sono qui e che va tutto bene, che la nostra ansia non li contagerà e saremo forti come prima.
Perché sarà forse la generazione dei 30/40enni a trovarsi schiacciata tra due fuochi. Quello della famiglia faticosamente realizzata, laddove sia stato possibile crearla anche con tutti i limiti imposti da una società che non ha certamente favorito processi di individuazione personale. E dall’altro lato la famiglia di origine, quella i cui membri più anziani sono i più esposti al rischio e che ora devono essere accuditi e sostenuti, anche se fino a un mese fa erano il sostegno delle generazioni più giovani da ogni punto di vista, anche da quello economico. E tragicamente forse continueranno a esserlo, erodendo i risparmi e intaccando pensioni che a oggi sembrano essere la fonte di reddito più sicura.
Abbiamo bisogno di intimità e contatto, eppure a lungo dovremo convivere con la distanza e la sterilizzazione. Avremmo bisogno di braccia accoglienti, saremo costretti a salutarci da lontano senza poterci sorridere.
Se vivessimo una pandemia in cui si può facilmente prevedere che alle persone nel tempo si frattureranno le ossa, predisporremmo un sistema di cura in cui metteremmo in campo tutte le risorse ortopediche e fisiatriche che abbiamo. Invece di fronte al fatto che ciò che si sgretolerà sarà la nostra salute psichica non stiamo facendo abbastanza. È necessario che a tutti i livelli, anche istituzionali, si prenda coscienza della portata del problema, perché se ne possa parlare, perché ciascuno senta che se nei prossimi mesi e nei prossimi anni avrà un momento di crisi non è solo. Perché ciascuno sia messo nelle condizioni di avere accesso alle cure di cui ha diritto.
Perché ciascuno sappia che andrà tutto bene, se ce ne occupiamo.